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Se non altro …

Mi preoccupo davvero troppo per gli altri. Non ne vale la pena. Se sei un bastardo menefreghista ottieni rispetto, rispetto e zero rogne. Non appena cominci a porti domande sul tuo comportamento, su ogni parola che ti esce di bocca … beh, è lì che cominciano le rogne. Perchè t’illudi che gli altri siano come te, è un limite della mente umana quello di credere che la testa altrui funzioni come la propria. In tutto ciò, però, ho anche un piccolo merito. Se m’incazzo di brutto, se m’incazzo pesante, non ho più ripensamenti. Per quel che mi riguarda, puoi creparmi sotto gli occhi, non muovo un muscolo per darti una mano. E puoi cercare di riparare in ogni modo, ma la tua idiozia mi ha immunizzata contro la mia ingenuità, so come sei realmente e non c’è più nulla che tu possa fare per farmi cambiare idea. Un paio di persone possono testimoniarlo. Sulle prime, magari, permane un briciolo d’odio. Poi però, neanche più quello, è come se per me tu fossi sparito dalla faccia della Terra. Quindi, addio gioia. Vorrei dire che è stato bello, tutto sommato. Ma non sarebbe la verità. E’ stato orribile, orribile e molto utile: se non altro hai contribuito a coltivare quel po’ di cattiveria in più di cui la mia persona necessita per integrarsi adeguatamente nel mondo.


A bug in the system

Sono in un periodo davvero strano. A parte le oscillazioni vertiginose dell’umore, da sempre presenti, ma che ultimamente raggiungono livelli impressionanti, è un paio di giorni che mi sembra di essere sotto l’effetto di qualche droga. Non so, i colori sembrano più nitidi, così come odori, sapori, sensazioni in generale. Il mio cervello è centrale elettrica impazzita, ogni stimolo, da quello apparentemente più banale al più complesso, genera catene di pensieri. E’ veramente difficile da spiegare. Però ieri, mentre guidavo in mezzo ad una tormenta di neve ascoltando uno dei miei tanti ciddì dei R.E.M., mi si è composta sotto gli occhi una frase, che non so bene cosa cazzarola possa significare: “arrivare all’essenza del concetto di Dio“. Non, non mi sono calata né acidi, né funghetti, non faccio un tiro di canna da minimo sei anni e non mi sbronzo da Capodanno. Magari è solo un modo strampalato di dirmi che comincio a credere un briciolo di più in quello che sto facendo e che, impegnandomi in questo senso, forse posso arrivare a capire quello di cui ho bisogno.


Turning point

Ero seduta nell’ufficio della mia tutor di tirocinio che, anzichè impartirmi istruzioni o partire col solito interrogatorio, tipico dei docenti, mi ha chiesto di parlarle di me. Cioè, non me l’avevano mai chiesto. In pratica le ho sintetizzato tutti gli anni dell’università, cosa ho scelto e perchè, che lavori ho svolto, cosa ne ho tratto. E, come previsto, siamo scivolati su quell’esperienza che mi ha fatto stare benissimo e malissimo allo stesso tempo, che ha rappresentato davvero uno spartiacque tra la post-adolescenza e qualcosa d’altro che però non ho il coraggio di chiamare “età adulta”. Non voglio romanzare, odio le smancerie e gli slanci appassionati. Ma non so come altro parlarne. Ho conosciuto una famiglia, mi ci hanno spedito i servizi sociali per dare ripetizioni ad una bambina di 9 anni con un ipotetico ritardo. Dico ipotetico perchè nessuno glielo ha mai diagnosticato ufficialmente, si supponeva e basta. All’inizio è stato un incubo, i genitori ringhiavano vedendomi arrivare, non si fidavano di me, non volevano che passassi del tempo da sola con la loro figlia. Per la prima volta in vita mia mi sono resa conto di non avere scelta, di dover per forza trovare un modo per andarci d’accordo. Così ho cominciato a presentarmi a casa loro ad orari prestabiliti, sopportando ogni tentativo di scoraggiarmi, andandoci anche con la febbre per smontare ogni eventuale accusa di scarsa serietà. Dopo qualche mese la madre ha iniziato a parlarmi, ad offrirmi il caffè, a lasciarmi portare sua figlia fuori casa. La bambina è migliorata a scuola, lasciando esterefatte le insegnanti. Un idillio, insomma. Non fosse stato per i gravi problemi economici, che alla fine hanno spinto la famiglia a domandare aiuto anche a me … aiuto che in quel senso non potevo dar loro. Per un bel po’ ho perso i contatti. Non volevo parlarci perchè non sapevo come gestire le loro richieste. Oggi però, tornandoci su, mi sono ricordata una cosa importante, una cosa che mi ha spaventato: sono io l’adulta. A me spetta il compito di non deludere una ragazzina che di delusioni ne ha avute fin troppe per la sua età. Ho preso il telefono e l’ho chiamata, preparandomi già al peggio, ad altre insistenti richieste. E, miracolo, il peggio non si è verificato. Stanno bene, hanno una nuova casa, non sono arrabbiati con me … oddio, mi è parso addirittura di percepirli felici di sentirmi.
Perchè parlo di spartiacque? Perchè sino ad allora io la povertà, quella vera, l’avevo vista solo in televisione. La mia famiglia non è particolarmente benestante, ma abbiamo una casa, una macchina, un telefonino ed il frigo pieno. Vedere che una bambina viene etichettata come “ritardata” senza alcun riscontro, per il solo fatto di essere povera, di avere genitori poveri e non scolarizzati, mi ha fatto incazzare da morire. Vedere che, nonostante la mancanza di soldi, di giochi, di libri, avesse preservato intatta un’incredibile voglia di imparare, mi ha fatto star male. Perchè, se fosse nata in una famiglia come la mia, magari a quest’ora sarebbe avviata ad una carriera brillante grazie a tutta quella forza di volontà. E a nessuno sarebbe mai venuto in mente di definirla “ritardata”. Perchè non è vero che viviamo in uno Stato assistenzialista, e non è vero che il nostro sistema è un sistema equo. A cosa diavolo può servire l’istruzione obbligatoria e gratuita se non si cerca mai di appianare lo svantaggio alla radice? “Giustizia” non può voler dire pensare che siamo tutti uguali. NON lo siamo, pensare una cosa simile è il più grande atto di ipocrisia che si possa fare.


Black or White

Chiariamo: non è che la mia esistenza sia tutta quà, non è tutto tutto nero. Ma il bianco non ce lo metto, un po’ perchè non mi serve fare continuamente l’elenco dei pro, un po’ perchè quando c’è tanto nero, il bianco passa in secondo piano. Han voglia a suggerirti di concentrarti sul bianco. La famiglia, la salute, bla, bla, bla. Diventano altri capi d’accusa. Un po’ come dire: “Guardati, cazzo! Hai tutto ciò che ti serve … e, nonostante tutto, sei riuscita a diventare una miserabile fallita”.


AHHHHHHHHHHHHH!

Mi piacerebbe capire perchè ce l’ho con l’universo. Mi piacerebbe soprattutto capire perchè non riesco a soprassedere all’ingiustizia che credo di aver subìto nella vita, a due genitori al limite della sanità mentale che mi hanno cacciato in testa una collezione invidiabile di paranoie ed insicurezze. Forse non sarò felice finché non ammetteranno la loro responsabilità in questo capolavoro dell’orrido che sono diventata. Ma ammettiamo che io riesca nell’intento di far loro riconoscere queste responsabilità … a me cosa resta dopo? La solita vita del cazzo, i soliti cazzo di odiosi attacchi di panico ogni volta che mi metto al volante della mia auto (e il desiderio irrefrenabile di strangolare tutti coloro che mi deridono, pensando si tratti di un’esagerazione), ogni volta che mi trovo davanti a qualcosa di nuovo da fare, che sia una tesi, una ricerca, un lavoro e parto dal presupposto di non saperlo fare perchè sono troppo fottutamente stupida per arrivarci. E non c’è verso di convincermi del contrario. 110 e lode alla laurea? PURA BOTTA DI CULO. Memoria e un po’ di educazione, null’altro. Un lavoro ben concluso? Non sono io ad essere dotata, sono gli altri ad essere talmente insulsi che un briciolo di impegno viene scambiato per capacità.
Io dovrei dimenticarmi di avere una famiglia e risolvermeli da sola questi casini, perchè in fondo non sono un bambino affamato del Biafra, avere due genitori partiti di testa, non è come non averli, o averceli in galera o drogati o che so io. Se ci penso, è ancora più divertente, non mi è dato nemmeno il diritto di lamentarmi.


Di calcio e affini

Da piccola mi piaceva giocare a calcio. Il calcio in tv mi annoiava, non avevo il benché minimo desiderio di andare allo stadio ed eventuali vittorie dell’Italia ai mondiali non mi esaltavano più di tanto. Io volevo solo tirare calci alla palla, avere un pretesto per rotolarmi a terra e sporcarmi di fango, schivare i tentati pestaggi dissimulati e suonarle anch’io quando c’era la possibilità di farlo. Tutto ciò, però, stando in difesa. O, al massimo, come libero, ma raramente entro la metà avversaria del campo. Il perchè l’ho sempre intuito, ma all’epoca non riuscivo a formulare una spiegazione esplicita, tutto restava a livello di sensazione. Anzitutto, non mi fido degli altri. Potevano mettermi in squadra con Ronaldo ai tempi d’oro, avrei seguitato a persistere nell’idea che prima o poi il nostro miglior attaccante avrebbe combinato qualche cazzata (per incoscienza, incapacità o disorganizzazione) alla quale qualcuno avrebbe dovuto mettere una pezza. E, siccome ho sempre creduto che il MIO metodo, pur essendo forse più lento e troppo meticoloso, sia comunque il più affidabile, io dovevo stare in difesa a metterci una pezza. Idem a scuola, per i lavori di gruppo: finivo a cercare di farmi carico dei compiti di tutti, perchè non credevo che gli altri, lasciati soli, potessero svolgere adeguatamente la loro parte di compito. Il triste è che, il più delle volte, era proprio così.
Questa però, è solo una faccia della verità. L’altra è più difficile da esplicitare, sgradevole. Ma c’è. E’ paura. Paura di tentare, di trovarmi senza coperture in mezzo al campo, col rischio di sbagliare e diventare la responsabile riconosciuta di un goal subìto, solo per essermi fatta soffiare la palla a pochi metri dalla porta.
Sono passati parecchi anni, ma non è cambiato assolutamente un cazzo. E se penso di fare goal dalla difesa, ho tempo a rinsecchirmi e crepare lì dove sono.