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A bug in the system

Sono in un periodo davvero strano. A parte le oscillazioni vertiginose dell’umore, da sempre presenti, ma che ultimamente raggiungono livelli impressionanti, è un paio di giorni che mi sembra di essere sotto l’effetto di qualche droga. Non so, i colori sembrano più nitidi, così come odori, sapori, sensazioni in generale. Il mio cervello è centrale elettrica impazzita, ogni stimolo, da quello apparentemente più banale al più complesso, genera catene di pensieri. E’ veramente difficile da spiegare. Però ieri, mentre guidavo in mezzo ad una tormenta di neve ascoltando uno dei miei tanti ciddì dei R.E.M., mi si è composta sotto gli occhi una frase, che non so bene cosa cazzarola possa significare: “arrivare all’essenza del concetto di Dio“. Non, non mi sono calata né acidi, né funghetti, non faccio un tiro di canna da minimo sei anni e non mi sbronzo da Capodanno. Magari è solo un modo strampalato di dirmi che comincio a credere un briciolo di più in quello che sto facendo e che, impegnandomi in questo senso, forse posso arrivare a capire quello di cui ho bisogno.


Turning point

Ero seduta nell’ufficio della mia tutor di tirocinio che, anzichè impartirmi istruzioni o partire col solito interrogatorio, tipico dei docenti, mi ha chiesto di parlarle di me. Cioè, non me l’avevano mai chiesto. In pratica le ho sintetizzato tutti gli anni dell’università, cosa ho scelto e perchè, che lavori ho svolto, cosa ne ho tratto. E, come previsto, siamo scivolati su quell’esperienza che mi ha fatto stare benissimo e malissimo allo stesso tempo, che ha rappresentato davvero uno spartiacque tra la post-adolescenza e qualcosa d’altro che però non ho il coraggio di chiamare “età adulta”. Non voglio romanzare, odio le smancerie e gli slanci appassionati. Ma non so come altro parlarne. Ho conosciuto una famiglia, mi ci hanno spedito i servizi sociali per dare ripetizioni ad una bambina di 9 anni con un ipotetico ritardo. Dico ipotetico perchè nessuno glielo ha mai diagnosticato ufficialmente, si supponeva e basta. All’inizio è stato un incubo, i genitori ringhiavano vedendomi arrivare, non si fidavano di me, non volevano che passassi del tempo da sola con la loro figlia. Per la prima volta in vita mia mi sono resa conto di non avere scelta, di dover per forza trovare un modo per andarci d’accordo. Così ho cominciato a presentarmi a casa loro ad orari prestabiliti, sopportando ogni tentativo di scoraggiarmi, andandoci anche con la febbre per smontare ogni eventuale accusa di scarsa serietà. Dopo qualche mese la madre ha iniziato a parlarmi, ad offrirmi il caffè, a lasciarmi portare sua figlia fuori casa. La bambina è migliorata a scuola, lasciando esterefatte le insegnanti. Un idillio, insomma. Non fosse stato per i gravi problemi economici, che alla fine hanno spinto la famiglia a domandare aiuto anche a me … aiuto che in quel senso non potevo dar loro. Per un bel po’ ho perso i contatti. Non volevo parlarci perchè non sapevo come gestire le loro richieste. Oggi però, tornandoci su, mi sono ricordata una cosa importante, una cosa che mi ha spaventato: sono io l’adulta. A me spetta il compito di non deludere una ragazzina che di delusioni ne ha avute fin troppe per la sua età. Ho preso il telefono e l’ho chiamata, preparandomi già al peggio, ad altre insistenti richieste. E, miracolo, il peggio non si è verificato. Stanno bene, hanno una nuova casa, non sono arrabbiati con me … oddio, mi è parso addirittura di percepirli felici di sentirmi.
Perchè parlo di spartiacque? Perchè sino ad allora io la povertà, quella vera, l’avevo vista solo in televisione. La mia famiglia non è particolarmente benestante, ma abbiamo una casa, una macchina, un telefonino ed il frigo pieno. Vedere che una bambina viene etichettata come “ritardata” senza alcun riscontro, per il solo fatto di essere povera, di avere genitori poveri e non scolarizzati, mi ha fatto incazzare da morire. Vedere che, nonostante la mancanza di soldi, di giochi, di libri, avesse preservato intatta un’incredibile voglia di imparare, mi ha fatto star male. Perchè, se fosse nata in una famiglia come la mia, magari a quest’ora sarebbe avviata ad una carriera brillante grazie a tutta quella forza di volontà. E a nessuno sarebbe mai venuto in mente di definirla “ritardata”. Perchè non è vero che viviamo in uno Stato assistenzialista, e non è vero che il nostro sistema è un sistema equo. A cosa diavolo può servire l’istruzione obbligatoria e gratuita se non si cerca mai di appianare lo svantaggio alla radice? “Giustizia” non può voler dire pensare che siamo tutti uguali. NON lo siamo, pensare una cosa simile è il più grande atto di ipocrisia che si possa fare.