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Di calcio e affini

Da piccola mi piaceva giocare a calcio. Il calcio in tv mi annoiava, non avevo il benché minimo desiderio di andare allo stadio ed eventuali vittorie dell’Italia ai mondiali non mi esaltavano più di tanto. Io volevo solo tirare calci alla palla, avere un pretesto per rotolarmi a terra e sporcarmi di fango, schivare i tentati pestaggi dissimulati e suonarle anch’io quando c’era la possibilità di farlo. Tutto ciò, però, stando in difesa. O, al massimo, come libero, ma raramente entro la metà avversaria del campo. Il perchè l’ho sempre intuito, ma all’epoca non riuscivo a formulare una spiegazione esplicita, tutto restava a livello di sensazione. Anzitutto, non mi fido degli altri. Potevano mettermi in squadra con Ronaldo ai tempi d’oro, avrei seguitato a persistere nell’idea che prima o poi il nostro miglior attaccante avrebbe combinato qualche cazzata (per incoscienza, incapacità o disorganizzazione) alla quale qualcuno avrebbe dovuto mettere una pezza. E, siccome ho sempre creduto che il MIO metodo, pur essendo forse più lento e troppo meticoloso, sia comunque il più affidabile, io dovevo stare in difesa a metterci una pezza. Idem a scuola, per i lavori di gruppo: finivo a cercare di farmi carico dei compiti di tutti, perchè non credevo che gli altri, lasciati soli, potessero svolgere adeguatamente la loro parte di compito. Il triste è che, il più delle volte, era proprio così.
Questa però, è solo una faccia della verità. L’altra è più difficile da esplicitare, sgradevole. Ma c’è. E’ paura. Paura di tentare, di trovarmi senza coperture in mezzo al campo, col rischio di sbagliare e diventare la responsabile riconosciuta di un goal subìto, solo per essermi fatta soffiare la palla a pochi metri dalla porta.
Sono passati parecchi anni, ma non è cambiato assolutamente un cazzo. E se penso di fare goal dalla difesa, ho tempo a rinsecchirmi e crepare lì dove sono.